Mi torna in mente come mentre fare il male è qualcosa da cui in linea di principio tutti sono chiamati ad astenersi, fare il bene è supererogatorio. In parole più semplici, non è male non farlo. Rubare è male, non dare soldi a chi è in difficoltà non è male, ma è bene farlo. Ci sono cose che è male fare, ma non è male non fare. (questo ovviamente sempre in relazione a un sistema morale più o meno condiviso).
La domanda da cui sono partito allora ritorna: posso chiedere a qualcuno di comportarsi con me in un certo modo? La prima cosa che mi viene in mente è che posso richiedere solo un esercizio ‘negativo’ del comportamento dell’altro. Ma il bene non glielo posso chiedere. Il bene, la generosità, la cura per l’altro, tutte le cose belle sono gratuite, e, in quanto tale, non domandabili. Se arrivano, bene. Se non arrivano, non male.
Con che diritto possiamo definirci delusi da qualcuno? Certamente siamo fatti in modo tale da produrci delle aspettative che cozzano contro i comportamenti dell’altro. L’aspettativa, l’immagine con cui abbiamo plasmato l’altro, subisce un brusco colpo. Dobbiamo ridefinirla, e in peggio. Qui sta la delusione. Ma in che misura è lecito formarci questa immagine? L’altro non si sentirà così costantemente sotto esame, come se il rapporto diventasse un compito in classe con errori da matita rossa, matita blu e note di merito? Non diventerà un guadagnare e perdere punti – meccanismo psicologico che in vero tutti applichiamo?
Ancora: nel valutare la ‘delusione’ che l’altro ci dà, l’aspettativa tradita spesso non teniamo conto dell’alterità dell’altro. Del fatto che ogni persona ha metri di giudizio solo suoi, scelte solo sue, orientamenti e visioni del mondo solo sue. Dichiararsi offesi non è forse pretendere di ridurre l’altro al medesimo che noi siamo? ‘io non l’avrei mai fatto’, dice l’offeso. ‘ma tu sei tu e io sono io’ risponde l’offendente. Suona questo egoistico? Eppure ogni azione si iscrive a partire dal punto di vista di chi la compie. Dove riceve la sua validità? Il criterio che muove il singolo entra però su un terreno di intersoggettività.
Certamente aveva ragione Nietzsche quando riconosceva che gran parte dei nostri comportamenti sono reattivi e non attivi, sarebbe a dire sono reazioni: ripicche, vendette, cose dette e fatte in risposta e non spontaneamente. Il meccanismo non è meno servile di quello del porgere l’altra guancia. In entrambi manca il principio dell’azione nel soggetto; in entrambi i casi l’azione del soggetto si tara a partire dall’azione dell’altro. Da cui, il risentimento, l’offesa e quant’altro. Se il Buddha diceva che siamo noi che scegliamo il nostro soffrire, vale anche qui. Siamo noi che scegliamo di disporci in modo tale di essere offesi, di sentirci parte lesa. E magari ci piace anche sentirci tali.
Non aspettarsi niente da nessuno. Una anarchia individualistica, ma con rispetto?
È questo un imperativo praticabile? E prima ancora, giusto? Il presupposto è che la vita sia un fatto individuale, vissuta nel solipsismo di ogni singolo Io? In che misura ogni ‘attore morale’ è responsabile per l’altro?